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Spinoza

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                                            Spinoza 

                      (dal "Diario letterario" di una studentessa di filosofia)

 

 Cerco di figurarmi come Spinoza abbia inteso rendere un servizio alla collettività umana con la rappresentazione di un progetto di esistenzialità che porta a dissoluzione una delle due modalità "forti" in cui si manifesta il proprium  della specie: la modalità del pàtico  (termine caro al Prof. Masullo e molto ricorrente nelle sue lezioni). Quella zona nodale dell'umano in cui hanno luogo i cortocircuiti delle emozioni, e nella quale l'estasi poetica ha sempre visto la faccia più familiarmente nota di  Sapiens -  il polo caldo del suo universo ontico - scomparirebbe sotto l'urto di ondate crioclastiche provenienti dall'Emisfero Glaciale Logico.

[E' bastato un attimo di abbandono alla suggestione dell'estro poetico appena evocato ed ecco che la riflessione - che voleva essere filosofica - si ritrova deviata e come catturata nel campo magnetico di quell'immaginario dal quale ci viene raccomandato di tenerci al riparo. Il risultato ha un colorito vagamente apocalittico. Devo ricominciare daccapo.]

Nella prospettiva spinoziana il soggetto individuale si sa  "modo" di una totalità di cui le parti sono onticamente correlate da una legge di necessità intrinseca e assoluta. Questa consapevolezza, conquistata mediante un lungo processo di autodefinizione conoscitiva, non lo porta all'affermazione di una solidarietà universale in cui l'individualità si auto-censuri in ciò che le è più proprio per un vantaggio universalmente utilizzabile (come in qualche modo farà più tardi con Hegel). Paradossalmente, egli sceglie per la propria realizzazione un cammino di solitudine, fatto di rifiuto di tutto ciò che lo correla agli altri soggetti empirici, "non sterili" sul piano dell'affettività. E' un distaccarsi progressivo almeno da quanti non siano subito sulla stessa direttrice di marcia.

E non è il distacco al modo del mistico - la cui scelta conserva pur sempre traccia di un valore testimoniale, quindi di una implicita caritas, come consapevolezza di autoelezione a un ruolo di avamposto spirituale, che presuppone una retroguardia cui quell'esperienza potrà recare vantaggio.

La solitudine del soggetto spinoziano si costruisce sull'auto-immunizzazione progressiva contro i soprassalti di quella humanitas considerata valore supremo ben prima che fosse assorbita all'interno del concetto cristiano di caritas.  E questo può solo spiegarsi come correlato della assoluta, infinita neutralità di un Dio asettico e indifferente - che non odia e non ama - che non guarda e non pensa se non se stesso: vero opposto, insieme, sia del Dio di Abramo e di Israele, sia di quello del Golgota e della con-passione.

L'uomo di Spinoza è diverso da tutto quanto la tradizione ci ha consegnato, perché diverso è il suo modello di riferimento metafisico. L'antropomorfismo della divinità è una costante della cultura occidentale - anche se il Cristianesimo ne ha precisato i termini rovesciandone gerarchicamente l'ordine implicito nella definizione stessa: l'Uomo è fatto a immagine di Dio - non viceversa. Spinoza non si è sottratto al cambiamento prospettico, rendendo peraltro ancora più intrinseca la derivazione dell'uno dall'altro.

Ma è legittimo il dubbio che, nella realtà empirica, l'operazione tutta ratio  con cui egli ha posto i termini della complessa unitarietà del reale abbia seguito l'ordine inverso: posto l'uomo che sceglieva di essere, l'uomo-Spinoza creava per se stesso il Dio che meglio conveniva all'attuazione del suo disegno - quello in cui fosse maggiormente esemplata la forma di perfezione cui egli aspirava, e che avrebbe dovuto guidare il suo progetto ontopoietico, ossia il suo divenire intellettuale.

Egli poteva così concludere la propria opera in quella beatitudine dell'essere che proviene dall'Amor Dei Intellectualis, e cioè dalla compiaciuta contemplazione intellettuale di se stesso. Ma per far questo, Spinoza ha dovuto neutralizzare l'alterità - flagello irriducibile e necessario della soggettività empirica. E lo ha fatto in tutti i luoghi in cui la granitica compattezza della sua costruzione lo consentiva:

- nella costituzione del suo orizzonte ontico, diluendola nella sostanzialità unica e unitaria che tutti ci costituirebbe;

- nella sfera del senziente (o del pàtico ), riducendola a presenza meramente fantasmagorica, quasi elemento alchemico che l 'Io-pensante può manipolare a proprio uso e consumo, per dare o togliere consistenza a un'oggettualità che non giunge così mai a diventare vera minaccia all'interno del modello di conoscenza spinoziano;

- sul piano noetico : mentre in altre filosofie l'alterità viene posta come necessario contraltare dell'Io, qui la sua stessa pensabilità è messa a dura prova.

Il pensiero, in quanto funzione di quella sovranità assoluta che è la Conoscenza, ne disinnesca la potenzialità eversiva, relegandola nel regno delle ombre e della non-realtà.

L'Essere  vive solo nella persona dell'Ego -  organo delegato della conoscenza. Ogni altra forma di soggettività è respinta in una funzionalità gregaria, più prossima al non-essere di quanto possa apparire ad un sommario approccio. Così è servita la maestà dell'ego, la quale - apparentemente negata - sopravvive nella funzionalità più alta che si possa dare in una prospettiva filosofica.

 

Post-Scriptum - A Spinoza devo un reale accrescimento della mia capacità di mediare fra i campi di forza che si contendono il dominio dell'Io - e che fanno della soggettività empirica quasi una semplice funzione simbolica della conflittualità universale da cui l'esistenza stessa appare governata.

E' un debito che non si lascia mettere in questione. Ma tuttavia devo impedire che esso assuma una consistenza tale da vanificare col suo peso il vantaggio conquistato.

Tra ragione e immaginazione, il  gioco  letterario si fa momento rituale di esorcizzazione della tendenziale costituzione di una nuova  Auctoritas  spirituale.

 

 

Teresa Nastri

 

 

(Marzo 1992 - corso di filosofia morale del Prof. Aldo Masullo)

 

 

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